Roberto Maroni, il leghista che sfidò il Senatur e visse realizzando il suo sogno
Avrebbe voluto diventare (e forse poi congedarsi da…) sindaco di Varese però l’insorgere della grave malattia lo ha indotto a rinunciare Non ebbe sempre facili rapporti sia con Umberto Bossi che con Matteo Salvini. Da braccio destro del senatur e gran mediatore con Berlusconi, ebbe il coraggio di vestire i panni di avversario in più occasioni, a partire dalla caduta del primo governo di centrodestra nel 1995 quando si oppose alla sfiducia decisa da Bossi, al punto da essere anche espulso partito. Poi il ripensamento, una felice lettera di scuse e l’umiliazione della richiesta di perdono, segnò il suo rientro nel partito e iniziò la fase dura della Lega secessionista, a cui Maroni regalò la frase del guanto di sfida: «Prima il Nord».
di Riccardo Colao – Direttore del Quotidiano l’Italiano

ROMA – La scomparsa dell’on. Roberto Maroni soprannominato anche “Barbaro Sognante” è avvenuta proprio nel momento in cui la sua presenza in politica (da dove si era ritirato per via del male incurabile che l’aveva colpito e comunque contro il quale aveva combattuto perdendo la battaglia) avrebbe potuto assumere maggiore incisività rispetto ai precedenti governi politici a cui aveva preso parte.
Il “barbaro” è spirato nella sua abitazione a Varese ove nacque nel 1955 e da dove era partita la sua ascesa in politica quando studente di Legge con idee vicine a Democrazia Proletaria incontrò nel 1979 il “senatur” Umberto Bossi.
Questa fortunata combinazione di incontri mutò la sua opinione politica al punto da fargli, in seguito, esclamare che se “lui (Bossi) è il papà della Lega, io ne sono la mamma“.
Fu così che partì l’avventura leghista con un occhio rivolto al soccer e un altro alla musica, le sue passioni che coltivò nei tempi in cui la politica, trasformatasi in lavoro, lo lasciava libero.
Tifoso milanista, ottimo tastierista (suonava il blues con l’organo Hammond nella band che aveva fondato col nome de “i Distretto 51”, amante della musica di Bruce Springsteen. Erano queste le sue sane passioni che lo rendevano “umano” tra gli altri “barbari leghisti”.
Per oltre vent’anni è stato uno degli big della politica italiana; fu nella compagnia degli ottanta leghisti che rappresentarono per la prima volta la Lega in parlamento nel 1992, poi stato ministro dell’Interno e vicepresidente del Consiglio nel 1994, ministro del Lavoro nel 2001 e ancora ministro dell’Interno nel 2008 con Silvio Berlusconi presidente del Consiglio, per chiudere infine la sua carriera nelle istituzioni come presidente della Regione Lombardia dal 2013 al 2018.
Avrebbe voluto diventare (e forse poi congedarsi da…) sindaco di Varese però l’insorgere della grave malattia lo ha indotto a rinunciare Non ebbe sempre facili rapporti sia con Umberto Bossi che con Matteo Salvini. Da braccio destro del senatur e gran mediatore con Berlusconi, ebbe il coraggio di vestire i panni di avversario in più occasioni, a partire dalla caduta del primo governo di centrodestra nel 1995 quando si oppose alla sfiducia decisa da Bossi, al punto da essere anche espulso partito. Poi il ripensamento, una felice lettera di scuse e l’umiliazione della richiesta di perdono, segnò il suo rientro nel partito e iniziò la fase dura della Lega secessionista, a cui Maroni regalò la frase del guanto di sfida: «Prima il Nord».
Poi nel 2012 prese il sopravvento contro il “senatur” quando Bossi si ritrovò invischiato, suo malgrado, nelle inchieste della magistratura che svelarono quanto accadesse all’interno del cosiddetto “cerchio magico”’ Sostanzialmente la Lega si ritrovò ad essere inchiodata dalle stesse accuse che aveva rivolto agli altri partiti politici. La celebre “serata delle scope” a Bergamo, fu il teatro nel quale avvenne di fatto il passaggio di consegne tra i due.
Maroni sedette sulla poltrona di segretario del partito per dodici mesi e poi si trasferì a Milano per “spodestare” quella, dove banchettava Roberto Formigoni, alla presidenza della Regione Lombardia. Matteo Salvini gli subentrò alla guida della Lega, ma non sono mai mancati attriti e frizioni al punto che Maroni ne chiese le dimissioni dopo il risultato, alle ultime politiche, rilevato al di sotto del 10%.
Roberto Maroni era sempre rimasto legato alla sua idea di federalismo blandendo il “secessionismo bossiano” che comunque nessuno avrebbe mai voluto e che nessuno gli avrebbe mai concesso. Al Corriere della Sera, quotidiano al quale aveva rilasciato una delle sue ultime interviste, aveva precisato di sentirsi semplicemente “un sognatore“. Per poi spiegare di avere sempre avuto “un sogno, cioè un progetto realizzabile a differenza dell’utopia“. Forse Roberto Maroni, in qualche maniera, prima che il soffio della morte lo sorprendesse nella casa varesotta, circondato dagli affetti più cari, sarà stato sicuro di averlo realizzato.
Riccardo Colao

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