Roma. Al Tribunale Civile, il “caso Lenzini” apre squarci di dubbi sulla curatela fallimentare dell’indimenticabile Umberto, presidente del primo scudetto della SS Lazio
I nipoti dell’ex presidente, Lorenzo, Carlo e Andrea, depositano un esposto perché sia fatta chiarezza sulla procedura fallimentare della ditta Lenzini che è in corso da 40 anni senza che se ne conoscano le carte avvolte nel segreto assoluto
di Riccardo Colao – Inchiesta del Direttore del Quotidiano l’Italiano

ROMA – Poco meno di due mesi addietro era stato inaugurato, in un quartiere della Capitale, un parco intitolato a Umberto Lenzini, lo storico presidente della SS Lazio che conquistò il primo Scudetto nel Football, al termine dell’indimenticabile stagione targata 1973/1974.
Nel luogo aperto al pubblico, dedicato al verde, inserito nella zona Vezio Crisafulli-Boccea-Val Cannuta (all’interno del municipio XIII) è stata svelata la targa commemorativa dedicata al ricordo del costruttore e presidente Lenzini. L’ubicazione non è stata scelta per caso poiché, a cavallo tra gli anni ’60 (quelli del boom) e poi ’70, il “sor Umberto” nella prima qualità di costruttore diede un fortissimo impulso urbanistico allo sviluppo di questa e altre aree della Città Eterna.
Sono dovuti trascorrere più di 7 lustri (36 anni) dalla scomparsa (avvenuta nel 1987, il 22 febbraio) perché lo storico imprenditore ricevesse l’omaggio dei concittadini. Anche se proprio lui di “romano” non aveva le origini dato che era nativo di Walsenburg, (Usa) esattamente nel lontano 20 luglio 1912.
I nipoti, Lorenzo, Carlo e Andrea, figli di Giovanni Battista, si erano battuti a lungo perché al nonno venisse attribuita una soluzione odonomastica adeguata allo spessore del personaggio, come una via, una piazza e comunque un riferimento che potesse ricordare degnamente il costruttore e pure il presidente innamorato della sua squadra di calcio dai colori biancocelesti, dal cuore generoso e dalla volontà indistruttibile che lo portò a edificare milioni di metri cubi di ottimi, rifiniti, robusti palazzi residenziali e di pervenire al primato del Tricolore sulle maglie del primo (in ordine di tempo) club capitolino.
A due mesi di distanza dal festoso evento che ha premiato la costanza dei discendenti, gli eredi della dinastia Lenzini, i fratelli Lorenzo, Carlo e Andrea, hanno dovuto presentare – tramite il proprio legale che li rappresenta – un esposto presso il Comando presso il 2° Nucleo Operativo della Guardia di Finanza di Roma. Che cosa accade? Per poterlo spiegare meglio dobbiamo anticipare qualcosa che sprofonda nel tempo a quasi quattro decenni addietro. Roba che appartiene al ‘900 e che però getta ombre e dubbi sugli anni del Terzo Millennio. E c’é chi intende vederci chiaro…
LENZINI STORY – Umberto Lenzini – come già anticipato – era nato a Walsenburg nello Stato del Colorado da familiari originariamente provenienti dall’Italia ed esattamente da Fiumalbo (in provincia di Modena). minuscolo centro abitato situato nell’alto Appenino Modenese alle pendici del Monte Cimone.
La famiglia emigrata negli Stati Uniti d’America, assieme ai tanti altri italiani che decisero di lasciare la Patria, lavorando sodo riuscì a diventare titolare di un importante emPorio a Huerfano, non molto lontano da Colorado Spring e vi resto finché non ritenne di aver guadagnato tanto danaro da poter ritornare in Italia. Rientrati nel Regno, decisero di stabilirsi a Roma dove acquistarono alcuni territori nelle zone che ora si trovano all’interno del Grande Raccordo Anulare.
Il giovane Umberto Lenzini che da “buon oriundo italo americano” contava su un fisico scolpito e decise di impiegarlo nel calcio; indosso le maglie di club come la Pistoiese, la Rondinella, la Fortitudo e la Juventus Roma, nel ruolo di ala sinistra. Ma non si limitò a praticare il football poiché partecipò e si aggiudicò persino i campionati giovanili di atletica leggera, vantando il record di 11 secondi netti nella sua specialità che gli era congeniale: quella dei cento metri.
Messe da parte le velleità sportive si trasformò in costruttore, prendendo a cuore quella che era la sua autentica passione lavorativa, dimostrando capacità e fiuto del business. Diede vita alla sua “company” nel ramo delle costruzioni civili, edificando nell’area nord-occidentale della Capitale (le odierne Valle aurelia, Pineta Sacchetti) sostanzialmente allo stato brado, realizzando palazzine che, per l’epoca, avevano il pregio di essere case molto vicine agli standard americani. L’intuizione favorì la presenza dei facenti parte della classe sociale della media-alta borghese che trovarono ottimale trasferirsi in quei quartieri immersi nel verde, dove appartamenti comodi, spaziosi, ben areati e sicuri, per andare e tornare dai luoghi di lavoro, potevano essere acquisiti con comode rateizzazioni.
Gli affari andavano così bene che nel 1964 Umberto Lenzini entrò nei quadri dirigenziali della SS Lazio nella veste di consigliere”; poi nel 1965, a causa della crisi che vide la proprietà opporsi ad alcuni giocatori per questioni di compensi, divenne vicecommissario della società e, il 18 novembre, venne eletto presidente quale maggior azionista del club biancoazzurro. Giorgio Bicocchi, nella web-biografia precisa che: “Nei disegni della famiglia (Lenzini n.d.d.) Carlo avrebbe sostenuto il peso economico più rilevante dell’investimento, lasciando Umberto sul ponte di comando. Ovvero, diventare Presidente. Ma poi Carlo, sul piroscafo che lo conduceva negli Stati Uniti, ebbe un infarto e morì. Così Umberto si ritrovò da solo nell’avventura, senza però tradire l’ideale del fratello“.
LA PRESIDENZA DELLA LAZIO – Quello del 1965-66 fu il suo primo campionato nella veste presidenziale. La Lazio colse la salvezza nelle ultime giornate ma nel 1966-67 non fu altrettanto fortunato e il cub biancoceleste conobbe l’onta della retrocessione in serie B. Lenzini operò la trasformazione sociale configurando il club in Società per Azioni. Il Sor Umberto nella cadetteria seminò bene e acquistò elementi come il centravanti Giorgio Chinaglia, il difensore Giuseppe Wilson (prelevati per 200 milioni di lire dall’Internapoli allenata da Gianni Di Marzio). Si assicurò le prestazioni dell’allenatore Tommaso Maestrelli e, grazie anche, a queste scelte, riconquistò il passaggio nell’Olimpo de calcio nazionale italiano. Così nel 1973-74 assieme a tanti altri “pezzi importanti” come Nanni, Oddi, Re Cecconi, Pulici, Frustalupi, Martini, Garlaschelli e i già ricordati Chinaglia e Wilson, riuscì nella storica impresa di consegnare alla Lazio il primo scudetto in 74 anni di storia sportiva.
IL DECLINO – Giorgio Bicocchi ricorda che Lenzini era “un uomo apparentemente timido ma scaltro negli affari. E a cui piaceva stupire. Temeva le personalità forti: come ad esempio Lorenzo o il consigliere Giambartolomei. Talvolta, usando le parole giuste, risultava anche facile convincerlo… Non badava a spese, però, per ingaggiare bravi direttori sportivi. E la Lazio, sfogliando l’album dei quindici anni in cui fu Presidente, ebbe davvero dirigenti coi fiocchi: Sbardella, Janich, Manni, Moggi. La gelosia era un suo difetto: fu proprio a causa di dissapori frutto della gelosia che il rapporto con Sbardella si incrinò definitivamente.”
L’aver colto tanto successo nel calcio lanciò “Papà Lenzini” da dover attendersi purtroppo le amare sorprese del destino. Sotto la sua gestione, il Club che aveva trovato sede al n° 8 di via Col di Lana, subì una serie di sfortunate vicissitudini quali la lunga malattia e la morte del tecnico Tommaso, Maestrelli, l’uccisione del calciatore Luciano Re Cecconi colpito dai proiettili della pistola impugnata dal gioielliere Bruno Tabocchini, nel gennaio del 1977 per un fatale equivoco, e infine lo scandalo del “calcio scommesse clandestine” che coinvolse diversi giocatori, tra cui alcuni biancocelesti come WIlson,, arrestati e portati in galera dagli agenti della Guardia di Finanza con pesanti accuse di frode sportiva (poi fortunatamente decadute e successivamente prosciolte nel secondo grado di giudizio con la piena riabilitazione) e che però costarono la retrocessione in serie B perché fu addebitata la responsabilità ogettiva.
A seguito delle tante questioni – suo malgrado, il 10 settembre successivo, Umberto Lenzini decise di lasciare la carica affidandola al fratello Aldo.
A soli 74 anni, il sor Umberto morì per un infarto cardiaco. Giorgio Bicocchi ricorda che “Gradualmente si staccò da quel mondo. Malato, si trasferì a casa di Silvestro, uno dei figli, che allora viveva a Grotta Perfetta. Una mattina si svegliò e chiese un caffè. Non fecero in tempo a portargli la tazzina che aveva già raggiunto Tommaso e Cecco, in quello spicchio di cielo che è più celeste di altri. Era l’alba di una domenica (il 22 n.d.d.), nel febbraio dell’87, in cui il campionato era fermo. Quasi un omaggio silenzioso per il Presidente, l’uomo del primo scudetto, custode di una Lazio romantica, semplice, vicina alla gente. In una parola, irripetibile”.
I suoi funerali si svolsero il giorno seguente nella Basilica di San Lorenzo fuori le mura alla presenza dei familiari e parenti stretti, dei giocatori e della dirigenza della Lazio del periodo, tra cui il fido Bob Lovati.
L’ADDIO ALLA LAZIO – Negli anni del boom la famiglia Lenzini aveva ampliato la potenza economica e la solidità bancaria. L’edilizia-Lenzini aveva allargato il raggio d’azione “alla zona di Baldo degli Ubaldi fino alla Madonna del Riposo”, quindi sulla via Olimpica. e Umberto Lenzini risiedeva a Piazza Carpegna, dove possedeva un attico disposto due livelli, progettato dai suoi, ben remunerati, architetti. Ogni stanza era dotato di un bagno autonomo. Lo condivideva assieme alla moglie, Delia, che amava accompagnarlo senza mai interferire nelle sue attività. Era padre di ben quattro figli: Giovanni, Paolo, Silvestro, Elide. Ma venti anni dopo quando nel corso della primavera del 1980, quando mezza Lazio fu coinvolta e rinchiusa ingiustamente come venne riconosciuto – a Regina Coeli per gli sviluppi del calcio-scommesse accusò – reduce dalla partita a Pescara – un malore e il suo cuore subì un primo violento terribile colpo. Pesava fortemente l’addio di Chinaglia (ceduto ai Cosmos per 650 milioni di lire) e incombevano i passaggi nell’al di là capitati prima a Maestrelli e poi al biondo Re Cecconi. Episodi che l’avevano gettato in preda all’angoscia. La retrocessione decretata dal Giudice Sportivo nell’80 fu la goccia che lo piegò al punto da indurlo ad indebitarsi pesantemente per arginare la crisi finanziaria del club.
Giorgio Bicocchi – autore di una sua biografia sul web – sostiene che: “Non ce la fece perché i creditori diventarono tanti, al pari delle cambiali inevase, e le sue imprese subirono un crollo negli affari. Stanco, provato, mollò la sua creatura. Prima al fratello Aldo. Poi il cognome Lenzini si distaccò completamente dalla Lazio: nell’81 il pacchetto azionario passò nelle mani di Gian Casoni.“
IL FALLIMENTO – Umberto Lenzini (come abbiamo anticipato morì a Roma il 22 febbraio del 1987). Da sette anni non era più presidente della Lazio ma nel 1984 il Tribunale di Roma aveva decretato il fallimento della sua impresa (mantenuta nello stato di “ditta individuale” a tutti gli effetti, restando così esposta agli attacchi dei creditori che premevano per ottenere il saldo delle forniture). Come in tante delle storie imprenditoriali, che esauriscono il proprio ciclo nella curatela fallimentare, c’é sempre una situazione che dovrebbe essere definita secondo criteri valutativi. I costruttore, nonostante le difficoltà per carenza di liquidità, poteva vantare tanti di quei beni immobiliari da poter soddisfare qualsiasi richiesta potendo far fronte nel maggior lasso di tempo disponibile agli attacchi che provenivano da chi vantava crediti nei suoi confronti. Il costruttore aveva investito molte delle sue risorse in una serie di quartieri al di fuori delle mura romane, nelle zone dell’gro pontino come Pomezia e le mancate vendite avevano influito sulla gestione dei suoi conti.
Forse mal consigliato, forse per interessi che al momento non sono stati ancora ben compresi o scandagliati nell’effettivo iter giudiziario, la ditta Lenzini è stata sostanzialmente affidata a una procedura fallimentare che, ironia della sorte, è tutt’ora in piena attività a ben 38 anni dall’inizio.
LA DENUNCIA – E qui entrano in gioco gli eredi. I nipoti: Lorenzo, Carlo e Andrea, figli di Giovanni Battista, il primogenito di Umberto. Stufi di questa telenovela giudiziaria, che ormai vive nei meandri del Tribunale Civile di Roma, hanno depositato, tramite il proprio legale di fiducia, un esposto perché gli attenti e precisi uomini della Guardia di Finanza possano acquisire elementi a chiarimento di qualcosa che appare nebulosa come possono esserlo tutte le storie infinite. Per il momento, ma solo per il momento, è tutto quanto possiamo anticipare nella prima puntata dell’inchiesta destinata a scoprire carte che qualcuno si ostina a mantenere nel segreto assoluto, nascondendole alla consultazione degli eredi e del loro collegio difensivo.
Riccardo Colao


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