Rossi Carlo detto “er sovietico”
UN RACCONTO DI FRANCESCO CHIUCCHIURLOTTO Carlo Rossi era rosso anche di carnagione, non solo di cognome, del resto diffusissimo nella…
UN RACCONTO DI FRANCESCO CHIUCCHIURLOTTO
Carlo Rossi era rosso anche di carnagione, non solo di cognome, del resto diffusissimo nella zona; ed in particolare nella faccia che caratterizzava un’enorme testa squadrata, sormontata da un cespuglio di capelli castano chiaro, illuminata da due occhietti porcini che non presagivano un tranquillo approccio alla vita ed al prossimo.
Anzi, a ben guardare, quella lucetta maligna che li attraversava di tanto in tanto, stava a significare un’intelligenza vivida e presente, una percezione del mondo e dei mondani acuta e critica, insomma mal si adattava a quel corpo massiccio e tondo, possente ma lento ed a tratti buffo.
Il cognome si riferiva pure alle sue idee politiche, socialista prima e comunista della prima ora poi, tanto che il suo attivismo, finchè la sezione PCd’I (Partito Comunista d’Italia di Bordiga) e poi PCI (Partito Comunista Italiano di Gramsci e Togliatti) rimase aperta e le riunioni sull’aia erano consentite, gli meritarono il soprannome di “Sovietico”.
Insomma quando la buriana fascista si abbatte sul paese, dopo un paio di violenti scontri fisici che stabilirono chi comandasse, cioè i fascisti, l’opposizione covava senza troppa evidenza, l’organizzazione smantellata dava flebili segni di presenza, e la comunicazione tra ribelli avveniva tra sguardi d’intesa, battute fulminanti all’osteria o in piazza, brevi conciliaboli sulle notizie che qualche compagno portava da Viterbo o da Orvieto.
Senonchè, si era alla fine degli anni venti, quando sulla torre di San Giovanni, dal finestrone che dava sulla valle del Tevere, cominciò a sventolare affissa su una lunghissima canna di bambù, una enorme bandiera rossa con tanto di falce e martello gialla: l’impressione ed il clamore nel paese fu al massimo a mano a mano che la notizia si diffondeva.
Ci si mise pure un disguido burocratico tra Carabinieri e Milizia, su chi dovesse toglierla da lì e siccome l’Arma pensava ad un intervento politico spettante alla Milizia e questa ad un problema di ordine pubblico spettante ai Carabinieri, il drappo vermiglio continuò a sventolare per un paio di giorni risvegliando sopite passioni proletarie, rinverdite emozioni giovanili, mai dimenticate ragioni di classe.
Ma quando si cominciò a sentire il fischiettio di “Bandiera Rossa” in Piazza 28 ottobre, Gherardo, il ras locale, si impegnò personalmente alla rimozione della bandiera ed all’indizione del Comitato Direttivo del PNF (Partito Nazionale Fascista) per i provvedimenti del caso.
Carlo Rossi abitava nel borgo, lungo le scalette che portavano a Piazza San Giovanni, in cui sorge l’omonima torre; quindi si sentiva sul collo il fiato di una qualche rappresaglia che lo riguardasse: era troppo semplice fare due più due e trovare in lui l’ovvio quattro.
A Castiglione non si seppe mai chi veramente avesse messo la bandiera rossa sulla torre, né tantomeno Carlo, anche dopo, aggiunse qualcosa a chiarire l’arcano; quindi che sia stato o meno lui non lo si seppe mai.
Fatto sta che il giorno stesso che la bandiera fu rimossa, Carlo rientrando a casa dal lavoro nei campi chiamò subito la sua Cesarina e la lasciò a bocca aperta con una strana richiesta: “Cesarì ndo’ stanno i fasciatori di Giacomino che mi servono?”
– All’epoca i fasciatori o fasce, erano delle strisce di cotone spesso lunghe più di un metro, che si arrotolavano intorno alle gambe e al busto sino alle ascelle dei neonati, per garantire la giusta dirittura delle ossa delle gambe e della spina dorsale.
Oggi sembrerà bizzarro, ma mi sembra ancora di vedere nella camera da letto dei miei genitori ,nel cassetto in basso del comò, i rotoli che erano serviti a me ed a mia sorella, anche dopo molti anni dai fatti descritti. –
Cesarina, abituata all’originalità del marito rispose tranquilla: “Ndo’ hanno da stà, nel comò noh??”
Carlo andò senza dire una parola in camera e mentre sulla porta Cesarina strabuzzava gli occhi per la sorpresa, si spogliò e cominciò, senza togliersi i mutandoni di feltro, a fasciarsi l’inguine e le cosce con i fasciatori che erano serviti per il figlio Giacomo.
Con due spille da balia chiuse in alto ed in basso la fasciatura, si rivestì e con una calma esemplare alla sbigottita moglie chiese: “Cesarì che c’è a cena?”
“Er capofoco e la catena” le venne da rispondere, ma siccome conosceva il marito e qualcosa aveva intuito da quella manfrina, con tutta tranquillità rispose: “C’è er minestrone di fave e na ‘ringa co li spinaci”
Eccellente cena, pensava Carlo mentre trangugiava il pasto e sorseggiava il rosso delle Poggere che restava un vino da messa cantata!
Si stava per sparecchiare, quando si udirono dei colpi decisi al batacchio della porta d’ingresso: “Ah Sovietico apre ‘n po’ sta porta che c’è na visita ufficiale!!”
La voce di Gherardo rimbombava per Via del Borgo, anche perché si doveva sapere della visita notturna.
Cesira col cuore in gola aprì la porta e fece entrare quattro energumeni in camicia nera e fez.
Gherardo, Vittorio, Sempronio e Chiappasù, entrarono d’impeto ed occuparono strategicamente i quatro angoli della stanza.
“Che vi posso offri Gherà?” Disse con un fil di voce Cesarina.
“Un bicchiere di vino va benone, ma semo noi stasera che offrimo” e così dicendo mise in mezzo al tavolo una bottiglia di olio di ricino, che si riconosceva dal becco unto e dall’attitudine che la squadra aveva ormai rodato nelle spedizioni punitive nel paese.
“Ma adesso che c’entra sta roba, che volete da me?”
Si azzardò a dire Carlo con tono risoluto, avendone una risposta ancora di più violenta: ”Aoh nun ce pijà per culo, la questione della bandiera la devi pagà, beve stò bicchiere, comunista, bolscevico, antifascista, sovietico, stronzo!”
Carlo prese il bicchiere e lentamente ne sorbì il contenuto; che schifo quell’unto che si spalmava sul palato, gonfiava la lingua e attraverso le narici mandava quel nauseabondo odore di pesce fradicio al cervello.
Eppure quella era la forma più mite e per certi versi scherzosa, goliardica, della repressione fascista del dissenso; tendeva ad umiliare l’avversario perché l’olio di ricino in quantità abnormi faceva defecare quasi subito ed un avversario nella merda era un avversario vinto.
Così Gherardo riempì un altro bicchiere e poi un altro ancora; poi cominciò a passeggiare per la stanza sotto lo sguardo terrorizzato di Cesarina e quello impassibile di Carlo; anzi se si fosse fermato a decifrarlo, avrebbe visto quel famoso scintillio crudele del Sovietico, che sicuramente non avrebbe sottovalutato.
Passa un quarto d’ora e non riscontrando cattivi odori o panni bagnati, con qualche irritazione riempie un nuovo bicchiere di olio e glielo propina.
Carlo Rossi, novello Cristo all’ultima cena, afferra il calice della passione e lo trangugia con una smorfia.
Ma ancora niente di quanto di solito accadeva; nessuna puzza di merda, nessuna chiazza umida nei pantaloni o sulla sedia.
Gherardo era visibilmente spazientito, ma non poteva di certo certificare davanti ai suoi una sconfitta così palese, quindi cercò di cavarsela con una battuta: “Ah ma tu sei stitico! Vedrai che stanotte riempirai le lenzuola”
Tra gli sghignazzi dei suoi accoliti, finalmente se ne andò.
Appena usciti, Carlo si precipitò nel bagno; si tolse con la massima precauzione i calzoni rimasti miracolosamente intatti, e con altrettanta cura cominciò a srotolare i fasciatori.
A mano a mano che l’operazione andava avanti la puzza delle sue feci invase il locale angusto e si sparse per casa. Ma il più era fatto: immerse le fasce nel secchio pieno d’acqua, si lavò a lungo col sapone fatto in casa, spalancate le finestre cambiò aria e abbracciata Cesarina si ficcò a letto.
“Pe’ stavolta sti fascistacci li manganelli se li so’ presi in quel posto; Cesarì viene qua, che so’ tutto pulito, tanto a da venì Baffone!”
Fc 3.12.13 (Francesco Chiucchiurlotto)
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