Monday, May 13, 2024
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Yvonne De Rosa: «La fotografia è il mio modo di comunicare con gli altri e di appassionarmi alla vita, è il canale che mi permette di crescere»

Yvonne De Rosa si laurea in Scienze politiche all’Università Federico II di Napoli, subito dopo si trasferisce a Londra e proprio lì comincia a studiare fotografia ottenendo un PG in photography alla “Central Saint Martins”, successivamente segue un Master in fotogiornalismo al “London College of Communication”.


Intervista Esclusiva a cura di Clelia Moscariello

per il Quotidiano l’Italiano

Sono tanti, tantissimi, i progetti a cui si dedica contemporaneamente Yvonne De Rosa, la fotografa, curatrice e direttrice artistica, fondatrice di “Magazzini fotografici” e noi l’abbiamo intervistata per scoprire qualcosa in più su di lei e sui suoi sogni ancora da realizzare…

Sono tanti, tantissimi, i progetti a cui si dedica contemporaneamente Yvonne De Rosa, la fotografa, curatrice e direttrice artistica, che ha creato sei anni fa “Magazzini fotografici”, associazione artistica e presidio culturale sito al centro storico destinato alla fotografia ed alle arti visive. Nel frattempo, prosegue senza sosta l’esposizione fino al 31 dicembre della mostra di cui la nostra fotografa è curatrice, “Diego Armando Maradona: il riscatto di una città attraverso lo sport”, allestita negli spazi del Centro Commerciale Jambo1 e realizzata con la collaborazione dell’APS “Magazzini Fotografici”, che racconta la storia di Diego Armando Maradona mediante gli scatti del fotoreporter Sergio Siano.

Yvonne De Rosa si laurea in Scienze politiche all’Università Federico II di Napoli, subito dopo si trasferisce a Londra e proprio lì comincia a studiare fotografia ottenendo un PG in photography alla “Central Saint Martins”, successivamente segue un Master in fotogiornalismo al “London College of Communication”.

Nel 2006, Yvonne ottiene il “Women International Prize in Photography”, inoltre, viene scelta come finalista per l ‘”Association of Photographers Open”.

Invece, nel 2007, “Afterdark” è premiata con il “First Prize in Fine Art Landscapes” agli “International Photography Awards” (IPA).

 Sempre in quell’anno, il suo libro di esordio,“Crazy God”, vince un premio istituito dall’Organizzazione mondiale della sanità e viene esposto alla “Conferenza mondiale sulla povertà e la salute” a Venezia.

 Il suo secondo libro, “Identità nascoste”, “Unfinished”, uscito nel 2013, è presentato nell’ambito di una personale mostra al “V&A Museum of Childhood” di Londra, “One Gallery, One Night: Emerging Women in Photography”, sponsorizzata da Kodak.

Yvonne De Rosa è anche un membro fondatore del collettivo “24 “.

Di recente, nel 2020, la mostra fotografica “Corrispondence” è esposta in Iran presso l’”Hasht Cheshmeh Art Space” di Kashan.

Nel 2016, De Rosa fonda a Napoli “Magazzini Fotografici” di cui è anche direttrice artistica.

Yvonne De Rosa è descritta come rivolta alla rappresentazione della memoria e della verità ed agli aspetti documentaristici oltre che narrativi della fotografia.  Si dice di lei che proceda spesso facendo ricerche, volte a ricostruire la storia di sconosciuti incontrati per caso e per realizzare ciò recuperi spesso oggetti nei mercati, chiacchieri con possibili testimoni ancora in vita, scatti fotografie nei luoghi chiave della narrazione e solo in seguito, la stessa realizzi scatti fotografici di ciò che si è verificato.

Ma chi è veramente questa poliedrica e prolifica fotografa, come ha vissuto la sua identità ed il suo ruolo di artista come donna e soprattutto cosa sogna per il suo futuro?

Noi le abbiamo chiesto anche questo nella lunga intervista a seguire…

  1. Ciao Yvonne,

I dati odierni sul ruolo della donna nell’arte sono allarmanti: stando a varie indagini sull’argomento, le donne che si occupano dell’arte ancora oggi soffrirebbero della disuguaglianza di trattamento rispetto agli uomini.  

Esiste una questione di genere nell’arte secondo te e come puo’ essere risolta secondo il tuo parere? Qual è la tua testimonianza in proposito?

«Nonostante il fatto che proprio il mondo dell’arte dovrebbe essere quello più aperto, esistono ancora questioni di genere, sono i numeri che parlano d’altronde e se i dati dicono questo, significa che la questione è ancora lì da essere risolta».

  • Come artista donna hai mai risentito o avvertito di risentire di pregiudizi secondo il tuo parere?

«Come artista donna ho sicuramente risentito di questo diverso trattamento, perché secondo me non si tratta di un pregiudizio ma di un diverso trattamento.

Non penso che possa esistere una donna nella nostra società che possa dichiarare di non essersi mai accorta di tale fenomeno.

Spesso “questo diverso trattamento” viene attuato anche da parte di persone che non se ne rendono assolutamente conto, magari non lo fanno di proposito, non hanno assolutamente idea del loro comportamento, anzi, a volte, se si fa notare un loro atteggiamento scorretto, loro restano basite.

Ritengo ci sia poca consapevolezza e coscienza di questo problema, poca cultura a riguardo, si fanno a volte degli errori e si fanno in modo inconsapevole.

 Questa questione, secondo me puo’ essere risolta solo continuando a fare cultura, a parlarne, a lottare in modo pacifico e civile, lottando contro questo errore e contro questa ingiustizia, non permettendo di farsi trattare in certi modi e insegnando sia agli uomini che alle donne il rispetto, infine, parlandone, non stando a guardare.»

  • Hai scritto nel tuo blog “la fotografia rappresenta lo strumento che può portarmi e che mi ha portato, al di là del puro aspetto estetico delle rappresentazioni, ad appassionarmi allo studio dell’essere umano”.

Finora cosa ti ha permesso di intuire la fotografia dell’essere umano e cosa ancora ancora non ti ha permesso di comprendere?

«Si tratta di uno studio “in fieri”, non si smette mai di imparare, di osservare… Grazie alla fotografia, che è il modo di comunicare con gli altri ed il mio modo di appassionarmi alla vita, io attuo il mio processo di crescita, che non si ferma mai, perché se non smetti di essere curioso, non smetti mai di conoscere.

La fotografia è il mio canale, io mi muovo da un posto all’altro perché voglio fotografare quel luogo e conoscere quell’artista oppure voglio imparare quella determinata cosa.

Grazie a questo canale privilegiato, io scopro nuove cose e scopro aspetti degli esseri umani e li approfondisco…la fotografia è un mio strumento, che potrò usare per sempre.

 La fotografia non mi ha aiutato a svelare un aspetto in particolare, forse ciò che mi è sempre più chiaro è che la storia si ripete, che facciamo tutti parte di una grande storia, di una sorta di memoria storica collettiva, che esista un “non detto” o forse anche un “non vissuto” che noi ci tramandiamo attraverso le generazioni».

  • “Magazzini Fotografici” rappresenta il primo spazio interamente dedicato alla fotografia di Napoli, cosa rappresenta invece per te “Magazzini fotografici” e quanto ti è costato realizzare questo sogno?

«”Magazzini fotografici” non è il primo spazio interamente dedicato alla fotografia di Napoli, ma uno degli spazi costruito a Napoli pensando alla fotografia, anche se ci ho messo tanto di quell’impegno che mi piacerebbe fosse così.

“Magazzini fotografici” per me rappresenta sicuramente un sogno come dici, esso è costato sicuramente tanta esperienza, tanta fatica, tanta energia, eppure, io ritengo che fino a questo momento il costo sia stato molto simile al beneficio che ne sto traendo in termini di soddisfazione, di rapporti umani, di ispirazione.

 Tutti i miei sforzi sono stati ben ripagati in qualità di presidio culturale, perché io considero quello di “Magazzini fotografici” un “business plan” destinato non ad un guadagno economico ma ad un guadagno in termini di crescita, soddisfazione, rapporti umani.»

  • Che ricordo, esperienza ed insegnamento ti hanno lasciato l’esperienza del libro fotografico e della esposizione “Crazy God”, nella quale, attraverso degli scatti, hai fornito testimonianza di un ospedale psichiatrico ormai chiuso documentandone le rovine e le tracce lasciate dai pazienti, ma soprattutto che ricordi hai dell’ex manicomio Leonardo Bianchi di Napoli in cui hai ambientato questa esposizione?

«Non è il libro che mi ha lasciato un ricordo, ma il libro corrisponde interamente al ricordo perché il libro è nato da tre anni di volontariato in quell’istituto.

Io ho prima vissuto quel luogo e l’esperienza umana di quel luogo con le persone che lo abitavano e poi ho percorso l’ultimo giorno quello stesso luogo senza quelle stesse persone.

 In quel momento quel luogo è diventato la metafora dell’abbandono che hanno subito quelle stesse persone che sono state rinchiuse in esso, quindi, il libro è frutto di tre anni di volontariato e proprio quei tre anni mi hanno condotto a fare quell’ultima passeggiata.»

  • Come è stato invece lavorare con le ONG inglesi e girare l’Europa orientale dalla cui esperienza è nato il tuo secondo libro: “Hidden Identities”?

«Di questa esperienza e di questo libro ho un bel ricordo, è stata una bella esperienza girare con loro, con le ONG…

Ho conosciuto il fondatore di “Hope and Homes for Children”, associazione impegnata nella difesa del nucleo familiare, Mark Cook, grazie all’esperienza di “Crazy God”, perché lui desiderava fare una esperienza con i ragazzi e le famiglie che vivevano abbandonati dalla società, non possedendo neanche i documenti che potessero dare loro l’identità, quindi, io ho girato con loro in quei luoghi, dove essi svolgevano il loro lavoro, raccontando quelle persone e le loro vite.

 Il mio obiettivo chiaramente era di fotografare tali individui da soggetti, assolutamente con la propria precisa identità di esseri umani singoli, al contrario di come loro stessi si percepivano, non avendo documenti e identità.

Nella fotografia del passato, generalmente, per ritrarre questo genere di individui e di situazioni a loro connesse, era usata la 35 millimetri, eravamo, quindi, abituati ad un determinato immaginario fotografico; invece, io ho deciso di utilizzare la Rolleiflex, la macchina fotografica dal formato quadrato che all’epoca era quella prediletta dai ritrattisti perché essa permette di guardare dritto negli occhi il soggetto, essa  ha il potere di affermare, e questi soggetti lì affermavano proprio la loro identità singola di essere umani, al contrario di quanto subivano.

 Io ho scelto di utilizzare un approccio alternativo ed inusuale, raccontando le identità forti di queste persone, perché, anche per lottare e per affrontare determinate situazioni gli esseri umani devono essere molto forti». 

  • Hai vissuto tanti anni a Londra. Tu personalmente ti senti più cosmopolita oppure italiana a tutti gli effetti?

«Mi sento assolutamente italiana e napoletana perché sento forti dentro di me le radici, Napoli è il mio lessico familiare ed il posto dove io mi sento a casa.

Viaggio con grande piacere ed amo tutte le culture ma io mi sento napoletana».

  • Nel 2020 hai presentato una mostra in Iran intitolata “Correspondence”, dedicata al recupero di un carteggio ed al racconto di una storia di lettere ma soprattutto di amore.

Di recente oltretutto hai curato la mostra fotografica di Sergio Siano intitolata “Diego Armando Maradona: il riscatto sociale attraverso lo sport”, allestita negli spazi del Centro Commerciale Jambo1 di Trentola Ducenta.

Che rapporto hai tu con la memoria e quanto contano per te i ricordi o l’operazione di recupero? Tu ti senti più proiettata verso il futuro o ancorata al passato?

«Sì, grazie, è proprio così, io ho un grande interesse per il recupero, per il racconto, per la memoria ed in effetti penso di scoprire il futuro anche proiettandomi nel passato.

Ho un grande amore per il recupero che mi porta allo studio della memoria ed alla rappresentazione della memoria.

Entrambe quelle citate da te sono due operazioni di recupero, in particolare, all’interno della mostra di Maradona, della quale io sono solo il curatore, per utilizzare una metafora io un po’ come un’”archeologa”: ho scavato nell’archivio di Sergio (Sergio Siano), l’ho studiato, ho trovato delle fotografie che neanche lui stesso ricordava di avere scattato.

Ho inteso raccontare una storia di riscatto sociale attraverso lo sport, una storia che riguarda un intero popolo e non solo Maradona.

 Questa mostra racconta di quella gioia che Napoli ha vissuto senza distinzioni di classe sociale, una storia, quindi, di riscatto e di città prima che di sport.

“Correspondence”, invece, rappresenta il recupero di un carteggio amoroso ed appartiene un po’ a tutti gli esseri umani ed alla loro memoria, perché l’amore appartiene ed interessa a tutti».

  • Nel 2006 hai conquistato il “Premio Internazionale delle Donne in Fotografia”, quale è il riconoscimento o il premio del quale sei più fiera in assoluto e quali vorresti vincere?

«Mi imbarazza un po’ questa domanda, mi sento di dire in generale soltanto che mi sento particolarmente orgogliosa di me quando vedo o sento un sincero interessamento al mio lavoro».

  1. Quali sono le attuali attività di “Magazzini fotografici” e quali iniziative particolari vorresti segnalarci?

«Attualmente ci sono mostre, workshop e presentazioni di libri, abbiamo anche una sorta di ciclo di film, di cineforum dove non solo si puo’ assistere ad alcune proiezioni ma è possibile anche dialogare con il regista di questi documentari e con i loro protagonisti.

  Sono molto felice che tra poco ci sia la mostra di Lisetta Carmi, una professionista della fotografia che io stimo tantissimo».

  1. A quali progetti stai lavorando al momento?

«Al momento sto lavorando su vari fronti, sia su una mostra futura che è ancora “top secret”, che su altri programmi di “Magazzini fotografici”.

Sto lavorando anche ad un mio nuovo mio progetto personale che tratterà ancora di memoria e che riguarderà un archivio.»

  1. Si tratta di un libro?

«In questo momento c’è tanto, troppo fermento nell’editoria fotografica, il libro mi piacerebbe ma deve rappresentare necessariamente la conclusione di un percorso, per quanto mi riguarda».

  1. La fotografia della quale sei più orgogliosa e quella che invece vorresti scattare?

«Quelle che faccio a mia figlia sono quelle delle quali sono più fiera, perché io ho creato anche il soggetto (ride).

Mi piacerebbe ancora ritrarre tanti soggetti, tutti forse».

  1. Quali sogni ha Yvonne De Rosa ancora nel suo cassetto?

«Non ho sogni megalattici, ma piccoli sogni che cerco di realizzare quotidianamente.

Più che sognare di essere altrove io tendo a vivere maggiormente la situazione in cui mi trovo, “hic et nunc”»

Infiniti Ringraziamenti

Clelia Moscariello

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