Sunday, May 26, 2024
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La “Marcia su Roma”, cento anni dopo: non fu una bravata del “capobanda”

Il fascismo si affermò col consenso sostanziale degli italiani, crebbe grazie al consenso pressoché unanime durato due decenni, corroborato da un miglioramento delle condizioni di vita del ceto medio-basso e dall’adesione ideologica di tutto il ceto accademico e intellettuale. Non è un caso che i professori universitari italiani, richiesti di giuramento di fedeltà al regime, lo eseguirono tutti con l’eccezione di una dozzina di pensionandi. Non è un caso che furono fascisti intellettuali del calibro di Giovanni Gentile, Indro Montanelli, Eugenio Scalfari, Norberto Bobbio, del futuro premio Nobel Dario Fo.


di Mario Adinolfi * per il Quotidiano l’Italiano

ROMA – La Marcia su Roma del 28 ottobre 1922 voluta da Benito Mussolini ed eseguita dalla camicie nere ebbe successo per 4 fattori: il cedimento del re, l’inconsistenza della classe di governo, l’irrilevanza del Parlamento, il sostegno popolare dopo 2 anni di violenze delle sinistre (biennio rosso). Il fascismo si affermò col consenso sostanziale degli italiani, crebbe grazie al consenso pressoché unanime durato due decenni, corroborato da un miglioramento delle condizioni di vita del ceto medio-basso e dall’adesione ideologica di tutto il ceto accademico e intellettuale. Non è un caso che i professori universitari italiani, richiesti di giuramento di fedeltà al regime, lo eseguirono tutti con l’eccezione di una dozzina di pensionandi. Non è un caso che furono fascisti intellettuali del calibro di Giovanni Gentile, Indro Montanelli, Eugenio Scalfari, Norberto Bobbio, del futuro premio Nobel Dario Fo.

La Marcia su Roma del 28 ottobre 1922 non fu l’azione di un “capobanda”, come oggi va di moda raccontare Benito Mussolini nelle pagine autoassolutorie dei Cazzullo e degli Scurati. Cent’anni dopo l’Italia ancora non riesce a far pace col fatto che Mussolini è stato il leader più visceralmente amato dagli italiani e non per caso la sua guida del Paese è durata così a lungo. Aveva ragione Piero Gobetti, uno dei pochi veri intellettuali antifascisti, a definire il fascismo “autobiografia della nazione”.

L’Italia non è stata soggiogata da un capobanda con la violenza, la Marcia su Roma non fu un golpe, non si fa la rivoluzione a casa del re e col suo consenso. La verità è che l’Italia era fascista, voleva il fascismo, si rispecchiava in Mussolini è ancora oggi voterebbe Mussolini se fosse improvvisamente redivivo. Se fossero poste a referendum le leggi fascistissime del 1925, se fosse cioè posto agli italiani il quesito: “Volete voi la chiusura per legge di tutti i partiti politici?”, la risposta sarebbe un plebiscitario “sì”. Il centenario della presa del potere da parte del fascismo dovrebbe servire a fare pace con la verità storica dell’amore degli italiani per il fascismo.

Fu un innamoramento sbagliato, condusse ad esiti tragici, come spesso accade alle storie d’amore. Ma io, che mai sono stato un nostalgico del regime né un suo sostenitore ideologico, trasecolo quando vedo il presidente del Consiglio dichiarare che il fascismo è stato male assoluto e che lei mai lo ha apprezzato. Trasecolo perché so che non è vero e non mi piace chi mente. Purtroppo cento anni dopo sul fascismo siamo tutti ancora costretti a mentire, senza riuscire a compiere un’analisi storicamente corretta di ciò che è realmente stato, per sviluppare gli anticorpi necessari a vedere il passato non ripresentarsi. Invece il nuovo fascismo è tra noi e ha il manganello arcobaleno e oggi ad esempio vieta alla Sala della Protomoteca in Campidoglio che possa tenersi un convegno di un’associazione cattolica profamily. L’istinto fascista del Paese si colora e le divise grottesche di trans e drag queen che vogliono entrare nelle classi dei bambini di tre anni a parlare di sesso, sono le nuove camicie nere che sognano di crescere una generazione di balilla.

Giorgia Meloni dovrebbe dire: “Sì, tengo nel simbolo la Fiamma che arde sul sepolcro di Mussolini perché i voti di quel segmento di Italia nostalgica sono i voti della mia gente ed è gente che non rinnego, così come non rinnego un pezzo rilevante della storia di questo Paese, ovviamente stigmatizzando le leggi razziali e l’intesa con Hitler che ci portò nell’abisso. Ma il fascismo non è stato male assoluto, ha fatto anche cose buone la cui storia arde in quella fiamma”. In alternativa, la Meloni rinneghi tutto, cancelli la fiamma dal simbolo di Fratelli d’Italia, si metta a fare la conservatrice e dica che gli anni in cui celebrava il 28 ottobre erano anni di errori di gioventù. Ma chi rinnega le proprie radici rinnega se stessa. Questo vale per la Meloni e per l’Italia.

Le radici vanno studiate, capite e infine condotte a una valutazione di natura storica. Su questo piano non ideologico sono disposto a dare il mio contributo.

*Mario Adinolfi  è un ex deputato al Parlamento Italiano, giornalistapolitico, e blogger italiano

Marcia su Roma con i quadrumviri

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